Partito di Alternativa Comunista

La resistenza in IRAK

Irak: grazie alla resistenza

PER L'IMPERIALISMO E' ANCORA NOTTE FONDA  

di Alberto Madoglio    

Dopo tre anni di occupazione militare, l'imperialismo americano in Iraq si trova in un pantano dal quale ha sempre più difficoltà a tirarsi fuori: gli obiettivi politici e militari del post Saddam Hussein non si sono realizzati; l'idea che "liberare" il Paese dalla dittatura baathista avrebbe dato il via ad un processo di "democratizzazione" (cioè di completo controllo coloniale Usa) che poi si sarebbe esteso a tutti i Paesi del Medio Oriente, per arrivare fino all'Afghanitan e al Pakistan, è oggi solo una illusione consegnata ai libri di storia.

Secondo osservatori tutt'altro che pregiudizialmente critici verso la politica estera di Washington, come ad esempio Kissinger, l'Iraq è ormai in una situazione di guerra civile e gli Usa sono costretti a fare i conti con una realtà che a molti ricorda quella vietnamita, in cui l'unica soluzione per Bush è cercare di limitare le perdite di militari, di prestigio e di influenza economica.  
 
Centocinquantamila soldati a stelle e strisce e altre migliaia di militi sotto le insegne dell'Union Jack - i due eserciti più moderni e forti del mondo - non riescono ad avere ragione della resistenza popolare, sia di quella fondamentaliste islamica sia di quella nazionalista laica, legata al vecchio partito Baath, ora fuorilegge. Le ultime offensive degli Usa, lanciate per cercare di normalizzare la situazione almeno nella capitale Baghdad, hanno avuto come risultato un acutizzarsi della violenza contro le loro truppe tanto che, secondo alcune fonti, anche la città di Falluja, devastata lo scorso anno da violentissimi bombardamenti, sarebbe ritornata sotto il controllo della resistenza.
Una sorte simile ha avuto il tentativo di dotare il Paese di istituzioni "democratiche" di tipo occidentale. Il governo e il parlamento nati dopo elezioni farsa svoltesi sotto occupazione straniera (ai pochi votanti venivano dati buoni per acquisto di generi alimentari), non riescono a svolgere nessuna funzione che non sia quella di dare una parvenza di legalità alla presenza americana di occupazione. Anche il tentativo di costituire un nuovo esercito e una nuova forza di polizia è a oggi senza alcun risultato, dimostrando che, come fu per il Vietnam, ogni ipotesi di "irachizzazione" del conflitto (cioè di una soluzione interna della crisi) è destinata a rimanere sulla carta.  
 
Quello che per gli Usa è il disastro iracheno fa sentire i suoi effetti anche al di là delle rive del Tigri e dell'Eufrate: l'Afghanistan, portato ad esempio dei successi della politica di "lotta al terrorismo" da parte dell'amministrazione Bush, è precipitato in un caos simile a quello iracheno, fatto di attentati suicidi, ripresa della lotta di resistenza all'occupazione ecc.; l'aggressione di Israele al Libano della scorsa estate doveva allentare la pressione sulle truppe statunitensi, ma il suo fallimento ha galvanizzato tutti coloro che si battono per la cacciata degli americani dal medio oriente; Iran e Nord Corea nonostante le minacce di sanzioni economiche e di azioni militari contro di loro, continuano nella scelta di sviluppare tecnologia nucleare. E, per finire, nella Repubblica caucasica della Georgia (regione strategica per la presenza di giacimenti di gas e petrolio), il presidente appoggiato dagli Usa rischia di essere sostituito perché non in grado di frenare le spinte separatiste nel Paese, mentre l'Uzbekistan ha ordinato la chiusura di una importante base militare per l'aviazione e l'esercito americani.
Insomma, possiamo affermare che l'imperialismo statunitense sta subendo degli scacchi più o meno gravi per la sua egemonia, in varie zone del pianeta nelle quali pensava di poter agire indisturbato.  
 
Tutto ciò ha portato ad una ridefinizione di equilibrio all'interno dei palazzi del potere a Washington. La vittoria dei democratici alle elezioni di mid-term di metà novembre non rappresenta certo una svolta nella politica estera americana: al di là di qualche aggiustamento di facciata, utile solo a riempire le prime pagine dei quotidiani, come la cacciata del superfalco Rumnsfeld, la nuova maggioranza al Congresso continuerà ad appoggiare la Casa Bianca nella sua politica estera. Con il voto le classi dominanti americane hanno voluto dare un ultimo avvertimento ad un Presidente che con la sua politica degli ultimi anni ha messo in serio pericolo il ruolo egemone a livello mondiale della superpotenza statunitense.
E' probabile che ora alla politica unilaterale proposta dai neo-conservatori se ne sostituirà una che preveda una azione maggiormente concertata con le altre potenze imperialiste (vedi Libano), pur continuando a riservare una posizione privilegiata a quella che, nonostante tutto, rimane la maggiore potenza politica economica e militare a livello mondiale.
 
Se questo è il quadro, cosa succederà in Iraq? Difficilmente questi aggiustamenti consentiranno all'imperialismo di venire a capo della situazione. E' probabile che il caos vada verso un'ulteriore drammatizzazione.
La soluzione militare di sconfitta dell'imperialismo ad oggi può venire solo dalle organizzazioni della resistenza, ma anche da questo lato le prospettive sociali per i lavoratori e le masse popolari irachene non sono buone. Se alcune di queste forze prospettano la creazione di una teocrazia sul modello di quella al potere in Iran o Arabia, a seconda che esse siano di ispirazione sciita o sunnita, cioè di un governo altamente oppressivo e reazionario, le tendenze laiche dimostrano anch'esse tutti i loro limiti politici. In un'intervista apparsa su un quotidiano in lingua araba pubblicato a Londra, un leader di una di queste organizzazioni della resistenza ha detto chiaramente quali sono le loro rivendicazioni: nuove elezioni e la creazione di un governo di unità nazionale, cioè di collaborazione tra le varie fazioni etniche di borghesia e proletariato. Non una parola che riguardi un qualsivoglia programma di rivendicazioni sociali, su come risolvere la disoccupazione e la povertà sempre più diffuse, niente che riguardi il saccheggio di ricchezze fatto dalle multinazionali in questi anni (Eni in testa), nulla circa il riconoscimento dei diritti politici e sindacali ai lavoratori iracheni.  
 
Pensare che la soluzione dei drammatici problemi possano verificarsi con una versione mediorientale del "compromesso storico"   (esperienza di governo che peraltro ha aggravato i problemi delle classi popolari in Italia, che pure si trovavano in situazioni infinitamente meno gravi di quelle oggi presenti in Iraq) è veramente una folle illusione che non può che provocare ulteriori disastri, lutti e miserie, e che dimostra come i gruppi dirigenti di queste forze tendano a subordinarsi alla collaborazione di classe.
Pur schierandoci incondizionatamente al loro fianco nella coraggiosa lotta che stanno sostenendo contro le truppe di invasione, come rivoluzionari dobbiamo avanzare una chiara proposta politica fondata sull'indipendenza di classe del proletariato iracheno. Un programma politico basato su un programma di rivoluzione permanente, in cui cioè un partito rivoluzionario del proletariato iracheno si costruisca legando la lotta di liberazione dall'occupazione imperialista -che sta segnando già grandi risultati e avrà un effetto importante per la lotta di classe internazionale- alla lotta per l'emancipazione sociale delle classi sfruttate, emancipazione che può avvenire solo per mezzo della rivoluzione proletaria. Il compito dei comunisti in ogni Paese non può limitarsi dunque a un pur indispensabile sostegno alla resistenza irakena ma consiste nel porsi il problema di favorire la nascita di un partito comunista rivoluzionario, internazionalista, che possa legare una vittoria contro le truppe imperialiste a una sconfitta di quella borghesia irakena che è stata e continuerà a essere subalterna all'imperialismo.

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