Stellantis: le trame dello sfruttamento e il pericolo di nuovi licenziamenti
di Roberto Tiberio*
Uno degli effetti collaterali della pandemia da Covid19, una pandemia, ricordiamolo, gestita malissimo dai governi borghesi, è stato quello di oscurare mediaticamente i ripetuti e sempre più pesanti attacchi alla classe lavoratrice: precarietà, licenziamenti, inasprimento delle disuguaglianze a danno soprattutto delle donne, ecc.
Come sappiamo, nel capitalismo del quale siamo prigionieri, a dettare le regole nel mondo del lavoro sono i grandi gruppi privati (industriali e finanziari), che seguono le logiche di profitto gestendo a loro piacimento denaro e forza lavoro, scaricando sulla collettività le scorie di questo sistema malsano.
Da Fca a Stellantis
Stellantis non fa eccezione. Questo astrale gruppo nasce dall’unione di Psa (Peugeot e Citroen) con Fca (Fiat Chrysler) diventando il quarto produttore di auto nel mondo. Abbiamo scritto «unione», ma la verità è che di fatto Psa ha acquisito Fca. D’altronde, se Psa ha più membri nel consiglio d amministrazione, se l’ad è di Psa, se lo Stato francese ha una quota di partecipazione importante (perché l’imperialismo francese è più forte di quello italiano), sembra chiaro verso quale famiglia borghese penda l’ago della bilancia e quali ripercussioni tutto ciò può avere sul futuro degli stabilimenti italiani del gruppo (chiaramente dei lavoratori, visto che Exor degli Elkan al momento della «fusione» ha incassato una cedola da 800 milioni). Futuro a dire il vero già segnato dalle strategie di globalizzazione capitalista di Marchionne che indebolirono enormemente la capacità produttiva italiana, andando a sfruttare maggiormente gli operai in altre parti del mondo.
Tavares segue lo stesso solco e dichiara la scarsa competitività degli stabilimenti italiani rispetto a quelli europei. Qui è utile rimandare all’articolo di Alberto Madoglio «Carlos Tavares al Corriere della sera: un’intervista istruttiva» (1) nel quale evidenzia le ragioni della progressiva delocalizzazione dall’Italia.
A rimarcare tali scelte strategiche, le parole dell’ad portoghese: «In Italia non si può tenere lo status quo» e la recente restituzione anticipata del prestito di 6 miliardi, con garanzia pubblica, che lascia presagire la volontà del gruppo di eludere qualsiasi vincolo (alquanto blando) sulla salvaguardia dei volumi occupazionali in Italia.
Le voci sui 12000 (!) esuberi da «smaltire» entro il 2024 sono un chiaro indicatore della direzione presa, e sono confermate dai fatti. La produzione negli stabilimenti italiani è in continuo calo, anche non contando il blocco causato dallo pseudo-lockdown. A Melfi è stata soppressa una linea di assemblaggio, a Cassino e Pomigliano il ricorso agli ammortizzatori sociali è massiccio e continuato, nel polo torinese, reduce dalla recente chiusura dello stabilimento di Grugliasco, i volumi produttivi sono esigui. La sensazione è quella di vedere fabbriche agonizzanti, tenute in vita solo per poter ottenere sovvenzioni e strappare accordi vantaggiosi. Ne è un esempio lo stabilimento di Termoli, dove vengono prodotti motori endotermici, che negli ultimi 5 anni ha visto quasi dimezzati i volumi produttivi. La produzione qui dovrebbe (il condizionale è d’obbligo, non ci sono dichiarazioni ufficiali) essere convertita in batterie per veicoli elettrici, le sovvenzioni pubbliche ammonterebbero a circa 370 milioni di euro, ma non si sa nulla del destino degli attuali 2400 lavoratori. Del resto non è un caso che mentre John Elkan bussava alle porte di Palazzo Chigi per battere cassa da Draghi, Tavares, metteva in dubbio la possibilità di costruire la nuova gigafactory della batteria a Termoli.
Lo stabilimento Sevel
L’incertezza aleggia anche sullo stabilimento più produttivo del gruppo in Italia, la Sevel di Atessa, dove in joint venture Fiat – Psa dal 1980 vengono prodotti veicoli commerciali leggeri. Gli elementi per alimentare preoccupazione ci sono tutti: l’ultimo nuovo modello è datato 2006, seguito da semplici restyling; non sono stati fatti investimenti strutturali per adeguare le linee agli standard attuali; si fa sempre più ricorso a lavoratori in somministrazione e trasfertisti da altri stabilimenti del gruppo, così da avere massima flessibilità. Non da ultimo il recente avviamento del sito di Gliwice in Polonia, che dalla produzione di automobili passa ai veicoli commerciali e che, al contrario della Sevel, potrà disporre di impianti e tecnologie di ultima generazione che consentiranno di ridurre al minimo il personale necessario, massimizzando lo sfruttamento dei lavoratori polacchi nostri colleghi.
E se da un lato è poco chiaro il destino degli stabilimenti italiani, chiarissimo è invece il trattamento riservato ai lavoratori. Nonostante le molteplici fermate produttive, la cassa integrazione, l’incertezza occupazionale, i ritmi e carichi di lavoro in fabbrica sono sempre più esasperanti. Vale a dire: si sfruttano al massimo i lavoratori nelle giornate produttive per poi lasciarli a casa scaricando i costi sulla collettività.
Questa accelerata estrema dei carichi di lavoro si deve a due fattori: il contratto collettivo specifico di lavoro (Ccsl) voluto da Marchionne nel 2010 e il totale assoggettamento delle direzioni sindacali firmatarie di tale contratto ai diktat aziendali.
Da ciò scaturì l’introduzione del sistema di lavoro detto Ergo-Uas con lo scopo di ridurre i tempi morti (morti per loro) e aumentare la produttività, riducendo la fatica. Tale ossimoro è ovviamente solo nella fantasia del padrone. Il risultato è stato invece quello di aumentare i carichi di lavoro in maniera esponenziale, tagliare le pause, estremizzare il concetto di lavoro in serie, eliminando quelli che dovrebbero essere tempi fisiologici di recupero come se il lavoratore fosse una macchina.
Le direzioni sindacali firmatarie hanno avuto un ruolo chiave nella realizzazione di questo disegno, rinnegando il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori e ridotte a mere fornitrici di servizi e subordinati al volere padronale, con l’unico scopo di continuare a esistere, privando i lavoratori degli strumenti di lotta ed esponendoli a qualsivoglia attacco.
La condizione dei lavoratori Stellantis è figlia del sistema del profitto imposto da chi si arricchisce sfruttandoli. Il padrone necessita della frammentazione della classe operaia e di imporre una visione individualista utile al controllo. Direzioni sindacali corrotte e governi borghesi fanno il resto.
È necessario innanzitutto unire le lotte operaie in un unico fronte; serve poi un partito rivoluzionario d’avanguardia e internazionale che si costruisca nelle lotte e porti la coscienza di classe che si contrapponga al dominio del capitale e liberi la classe operaia dalla morsa del capitalismo.
*operaio Stellantis, attivista del Coordinamento Slai Cobas di Chieti
Note