di Massimiliano Dancelli
(metalmeccanico)
“Un alleanza con governo e imprese per impedire che il paese si sbricioli” con queste parole si apre un’intervista di Landini su “la Repubblica” del 9 dicembre.
Le parole di Landini non potevano essere più chiare e rappresentative della strada intrapresa dal maggiore sindacato italiano. La Cgil, di fatto, chiede al governo soldi pubblici, quindi le tasse dirette ed indirette dei lavoratori italiani, da versare ai padroni, affinché garantiscano la continuità industriale nel Paese. In cambio si chiede ai lavoratori di pazientare ed essere pronti anche a qualche sacrificio. Un nuovo patto sociale insomma, tra sindacati e padroni, con l’intermediazione del governo, per governare la crisi, salvaguardare posti di lavoro e portare il «sistema Italia», fuori dal pantano e dalla stagnazione in cui versa dal 2008/09.
L’intento del segretario della Cgil, già segretario delle tute blu, potrebbe sembrare quello di lanciare un «apprezzabile» segnale di responsabilità se non fosse che la proposta prevede un accordo con chi ha interessi di classe inconciliabili con quelli dei lavoratori, per giunta con la regia di un governo, che è il governo di un Paese imperialista, dove il potere sta nelle mani della borghesia, ossia dei padroni di quelle imprese con cui Landini dice di voler collaborare. Già questo sarebbe sufficiente a mostrare il vicolo cieco in cui, una simile «collaborazione», intrappolerebbe i lavoratori, se poi aggiungiamo le precedenti esperienze in tale direzione, diventa ancora più chiaro il quadro in cui a fronte di insignificanti vantaggi i lavoratori sono chiamati ad enormi sacrifici.
Nel 1993, con l’allora governo Ciampi, si siglò il protocollo sul costo del lavoro, per attutire gli effetti dell’eliminazione della scala mobile. L’accordo, che introdusse il calcolo del salario in base all’inflazione programmata (dal governo), ha portato ad una graduale diminuzione dei salari ed allo smantellamento del contratto collettivo nazionale (Ccnl) a favore della contrattazione aziendale, in cui si sarebbe dovuto recuperare il salario perso a livello nazionale.
Altro esempio è il cosiddetto «patto di Natale» del 1998 con l’allora governo D’Alema, in cui con la retorica del confronto con un governo «amico» e di «sinistra», di fatto, si abbandonava definitivamente ogni forma di mobilitazione per favorire la concertazione con governo e padronato.
Arrivò poi il «patto per l’Italia» tra Cisl-Uil e governo Berlusconi (la Cgil non vi aderì), in cui si introducevano le deroghe ai Ccnl e si ponevano le basi per la soppressione dell’Articolo 18.
Quindi, ogni volta che si è fatto appello alla collaborazione tra le «parti sociali» (formula che noi rigettiamo perché nega l’esistenza degli interessi inconciliabili tra le classi e l’esistenza delle classi stesse definendo ad ognuno un ruolo ed un compito in questa società in cui tutti saremmo uguali) a guadagnarci sono stati solo ed esclusivamente i padroni: nel 1993 si abbassarono i salari, nel 1998 si introdusse la concertazione come pratica sempre e comunque necessaria e nel 2002 vennero poste le basi per la cancellazione di quei principali diritti che i lavoratori si erano conquistati negli anni a fronte di dure battaglie.
In poche parole, mentre i lavoratori, con l’alternarsi delle varie crisi, perdevano diritti e salario, i grandi capitalisti aumentavano il loro patrimonio, col benestare delle burocrazie sindacali con le quali avevano stretto patti nel nome di fantasiosi salvataggi dei posti di lavoro e di un ingannevole rilancio dell’economia a favore di tutti.
L’ennesimo inganno di Landini
Quello che Landini, nella succitata intervista, definisce «progetto condiviso per il Paese in cui ciascuno faccia la sua parte e nel quale sia riconosciuta pari dignità tra lavoro e impresa» si può, senza inutili giri di parole, sintetizzare in quella che chiamiamo «collaborazione di classe». Del resto non ci stupiscono queste dichiarazioni del segretario della Cgil, dal momento che la negazione dell’esistenza delle classi (operaia e borghese) e la collaborazione coi padroni, che garantisce la pace sociale dividendo i lavoratori e invitandoli a deporre le armi con promesse che non potranno mai essere mantenute, sono pratica comune delle burocrazie sindacali fin da quando sono diventate tali.
Lo stesso Landini ha sempre avuto grande padronanza di questa pratica, anche quando, da segretario generale dei metalmeccanici, dichiarava, demagogicamente, di voler occupare le fabbriche. La realtà dei fatti era però ben diversa: sfruttando le sue doti di arringatore delle masse, ingannava i lavoratori illudendoli di aver trovato un condottiero che li avrebbe salvati dall’abisso in cui stavano precipitando. In concreto, invece, le sue azioni sono sempre state, nel rispetto del suo ruolo di pompiere delle lotte, quelle di gettare acqua sul fuoco ogni volta che i lavoratori provavano ad alzare la testa.
In Fca ha rinunciato alla lotta contro il «modello Marchionne» in favore dei ricorsi in tribunale, nonostante gli operai fossero disposti a mettersi in gioco, col risultato che ora quello è diventato il modello di riferimento per tutti i contratti nazionali firmati successivamente. Ha, quindi, accettato senza alzare troppo la voce, per non disturbare gli allora vertici camussiani del suo sindacato, l’accordo sulla rappresentanza sindacale, ovvero la restrizione per i lavoratori degli spazi democratici nelle fabbriche. Appena eletto segretario generale della Cgil, ha auspicato immediatamente una riunificazione, non delle lotte dei lavoratori, bensì delle burocrazie sindacali, prospettando la possibilità di una fusione con Cisl e Uil, due dei principali sindacati di governo oggi in Italia. E, ciliegina sulla torta, non appena Salvini, con la sua manovra elettoralistica, ha fatto cadere il governo M5s-Lega, con la scusa di evitare il pericolo della vittoria delle destre Landini si è subito prodigato per la costituzione di un nuovo governo tra M5s e Pd, con tanto di elogi a Conte per il suo operato. A tal proposito è necessario ricordare alcuni dei «meriti» di Conte, presidente del consiglio anche nell’anno e mezzo di governo giallo-verde: svendita dell’ex ILVA ai «bucanieri» franco-indiani di ArcelorMittal con la prospettiva di più di tremila esuberi; il sì alla realizzazione della Tav; il fallimento, non ancora risolto, di Alitalia; il varo dei «decreti sicurezza», i cosiddetti «Salvini» e «Salivini Bis» con cui si attaccano i diritti degli immigrati e si puniscono con la galera le pratiche di lotta dei lavoratori, come la possibilità di occupare una strada durante una protesta.
Ora Landini, «paladino degli interessi dei lavoratori» ci riprova, spiegando, zelante, che, ancora una volta, devono essere loro, i lavoratori, a farsi carico, assieme ai padroni, di trovare una soluzione ad una crisi di cui non solo non hanno nessuna colpa ma per la quale sono stati, fino ad ora, i soli a pagare il prezzo più alto in termini di diritti, tagli allo stato sociale, salario e sicurezza sul lavoro.
Altro che patto, ci vuole la lotta!
L’Italia è senz’altro tra i Paesi più colpiti dalla crisi economica, uno scenario che, peraltro, si appresta a peggiorare considerando lo spettro di una nuova recessione mondiale che si vede all’orizzonte. Al Ministero per lo sviluppo economico (Mise), sono ferme ben 153 vertenze (fonte Il Sole 24 ore- ndr), in cui sono coinvolti oltre 300.000 lavoratori (considerando anche l’indotto) a rischio licenziamento o cassintegrazione. E’ evidente, quindi, che le proposte di Landini, non possono trovare applicazione se non nel senso che siano gli operai a fare dei sacrifici.
I padroni hanno come unico interesse quello di preservare o aumentare i loro profitti e non intendono fare sconti o concessioni di alcun tipo: se la fabbrica non rende si chiude e si va a produrre dove il costo del lavoro è più basso. I finanziamenti pubblici, ovvero risorse sottratte a sanità ed istruzione pubbliche, come insegnano le vicende Ilva ed Alitalia, arginano solo temporaneamente il problema e ingrassano le tasche dei padroni che, quando non hanno più nulla da guadagnarci, abbandonano e affondano la nave con tutti i suoi passeggeri a bordo. Non è possibile scendere a patti, gli interessi dei lavoratori si scontrano in maniera sempre più evidente con gli interessi della classe possidente. I lavoratori devono necessariamente porsi sul terreno dello scontro duro e della lotta senza indietreggiamenti se vogliono salvare il loro posto di lavoro e iniziare a riprendersi dai padroni tutto quanto gli è stato tolto in questi anni, con la complicità dei diversi governi sia di centrodestra che centrosinistra.
I lavoratori non hanno altra via che unirsi in un unico grande fronte di lotta, lottare compatti e senza paura. In Italia esiste già uno strumento che va in quella direzione, anche se ancora in forma embrionale: il Fronte di Lotta No Austerity. Solo se sapremo sviluppare e far crescere questa forma di unità potremo ottenere risultati tangibili. Non è certo con la collaborazione coi padroni che cambieranno le cose, le aziende in crisi e a rischio chiusura vanno nazionalizzate, senza indennizzo e poste sotto il controllo dei lavoratori. Questa la soluzione, alla faccia di Landini e del suo governo amico!