Partito di Alternativa Comunista

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Giù le mani dal diritto di sciopero

 

di Alberto Madoglio

Nelle ultime settimane il governo Renzi ha dato una nuova, ulteriore accelerata al suo programma di attaco ai diritti dei lavoratori. Dopo aver cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e imposto una ennesima riforma del lavoro (che in sostanza significa meno salario e meno diritti per operai e impiegati), ha deciso il suo nuovo obiettivo: il diritto di sciopero. Ministri e industriali hanno annunciato una ulteriore stretta sulla possibilità di proclamare delle agitazioni nel settore pubblico: si parla dell’obbligo di indire un referendum, valido se il numero dei partecipanti è tra il 30 e il 50%, con la necessità che i voti favorevoli allo sciopero siano la maggioranza.
Cgil, Cisl e Uil per tutta risposta hanno detto che le regole ci sono già, basta farle rispettare. Hanno ragione: nel pubblico impiego da oltre venti anni è quasi impossibile scioperare. Quando ciò accade, i minimi di servizio da garantire ne depotenziano enormemente l’efficacia.

Il pretesto per questa nuova demagogica e reazionaria campagna, è venuto da alcuni eventi non legati tra loro, ma che hanno avuto un grande risalto sui mass media nazionali: un’assemblea del personale impiegato agli scavi di Pompei, lo sciopero dei piloti Alitalia e infine il cosiddetto sciopero bianco degli autisti dell’Atac, l’azienda dei trasporti del Comune di Roma.

Questi eventi hanno dato il via a una campagna di odio e di criminalizzazione dei lavoratori come non si vedeva da parecchio tempo.

 

Una vergognosa caccia alle streghe

Secondo ministri, politici di entrambi gli schieramenti e pennivendoli al loro servizio (giornalisti di La Repubblica, Corriere, La Stampa e Sole 24 Ore) si è parlato di “sfregio all’immagine dell’Italia”, di “cittadini presi in ostaggi da piccole minoranze”, di “fannulloni dediti all’assenteismo” e altre amenità variamente assortite.
Diminuita la canea delle prime ore, proviamo a capire cosa si cela dietro a questa virulenta campagna contro il diritto allo sciopero. Prima di tutto bisogna smascherare la pretestuosità della polemica legata ai casi sopra citati.

Per l’assemblea di Pompei si è trattato, come raccontato da Il Fatto Quotidiano, di una riunione dei lavoratori regolarmente convocata, nel rispetto delle norme previste dalle liberticide leggi che già oggi regolano il pubblico impiego.

Stesso discorso per lo sciopero Alitalia, per il quale prefetto e autorità di Garanzia (sic!) sugli scioperi hanno ritenuto di non intervenire con la precettazione. E non certo per il timore di utilizzare una forma di repressione così dura, visto che a Milano con la scusa dell’Expo il diritto a scioperare per chi lavora nei trasporti è già stato nei fatti cancellato.

Circa il fantomatico sciopero bianco all’Atac di Roma, in questo caso nessuno ha ricordato che la giunta “progressista” di Marino, all’epoca ancora sostenuta da Sel di Vendola, lo scorso aprile ha unilateralmente disdetto tutti i contratti di secondo livello dal 1962 a oggi. Questa decisione ha avuto come conseguenza che i lavoratori vedranno ridotta la busta paga del 40% e aumentate le ore di lavoro da 37 a 39 settimanali. Più lavori e meno guadagni! Ovvio che una simile decisione non potesse che scatenare la rabbia tra chi fa un duro lavoro, in una città invasa dal traffico privato, per un salario da fame (poco sopra i 1000 euro). Nemmeno ha creato troppa attenzione il fatto che il trasporto pubblico della capitale sia in una situazione disastrosa per colpa dei tagli alla manutenzione e al rinnovo del parco automezzi. Lo schema è il seguente: si fa di tutto per mandare in rovina il settore pubblico per giustificare poi una privatizzazione selvaggia (Alitalia docet).

 

Timorosi di una sempre più probabile esplosione sociale

Risibile la "preoccupazione" che il governo ha manifestato per i "diritti dei cittadini". Non ricordando che questi “cittadini” per la stragrande maggioranza sono lavoratori, pubblici o privati, per i quali il governo Renzi, al pari di chi lo ha preceduto, ha dimostrato soltanto disprezzo. Un disprezzo fatto di licenziamenti, blocco dei salari, distruzione progressiva dello stato sociale (pensioni, scuola, sanità) e così via.
L’obiettivo come detto è un altro. Renzi spera con questa campagna demagogica di sviare l’attenzione dalle difficoltà del proprio esecutivo a mantenere le mirabolanti promesse fatte al tempo del suo insediamento, e allo stesso tempo punta a guadagnare di nuovo popolarità tra qualche settore elettorale, dopo la batosta alle recenti elezioni regionali.

Non si può negare infatti che alcune forme di lotta dei lavoratori non siano molto popolari. Ciò in primo luogo è responsabilità delle direzioni del movimenti operaio italiano, e della Cgil in particolare. Gli scioperi che nel corso degli anni la Cgil ha convocato sono stati vissuti come degli stanchi rituali volte solo a garantire alle burocrazie di tornare al tavolo della trattativa con governo e padroni.

Le speranze, alimentate dalla Cgil, di lottare fino alla fine per difendere le conquiste di decenni di lotte, sono state regolarmente tradite: basta ricordare cosa la Cgil ha fatto per constatare la riforma delle pensioni Monti-Fornero. All’inizio proclami combattivi (la Camusso affermò: 40 -inteso come anni di lavoro - è un numero magico. Non si deve lavorare un giorno in più), alla fine un misero sciopero di 3 ore che non è servito a nulla, tant’è che oggi i lavoratori in Italia sono quelli che vanno in pensione più tardi nell’intera Europa.

Ovvio che di fronte ai continui cedimenti di quello che attualmente è il maggior sindacato del Paese, e in assenza di un’alternativa realmente combattiva (e questa non può essere certo rappresentata dalla Fiom di Landini, che al di là della sua demagogia “finto barricadera”, nei fatti è corresponsabile della disastrosa situazione in cui si trovano i lavoratori), la rabbia della maggioranza dei lavoratori trovi sfogo nel populismo e nella politica reazionaria. E’ quello che accade anche per la questione dell’immigrazione, altra presunta "emergenza" creata a tavolino.

Ma la motivazione principale è un’altra. Negli stessi giorni in cui la polemica è divampata, uno studio del Fondo monetario internazionale ha scritto nero su bianco che serviranno venti anni perché l’occupazione in Italia torni ai livelli precrisi, cioè prima del 2007. Come se non bastasse l’Istat ha confermato il fallimento delle politiche sul lavoro del governo: a giugno, infatti, è aumentato per il secondo mese consecutivo il numero di disoccupati.

I ministri Padoan e Poletti si sono affrettati a dichiarare come questi dati non tengano conto degli sforzi dell’esecutivo in materia di lavoro, e hanno assicurato che nei prossimi mesi i risultati saranno certamente migliori.

Previsioni a così lungo tempo sono quanto di più aleatorio si possa fare, tante sono le variabili da tenere in considerazione (nuove crisi come quella scoppiata nel 2007, conflitti, rivoluzioni, scoperte tecnologiche e così via). Quello che possiamo dire è che se mai si ritornerà a livelli di disoccupazione “normali”, ammesso che si possa ritenere normale una disoccupazione tra il 6 e il 7%, si tratterà di lavori con salari più bassi, aumento delle ore di lavoro, meno diritti e meno welfare di quello che abbiamo avuto per decenni. I lavoratori poveri saranno la norma e non l’eccezione.

E’ chiaro quindi, che già a partire dal prossimo mese di settembre, potranno esserci nuove e più massicce esplosioni sociali: nella scuola contro la “Buona Scuola” del ministro Giannini, nel settore dei trasporti contro i progetti di privatizzazione che da più parti si vogliono iniziare, ecc.

 

Nessuna legge può fermare la lotta di classe!

Il governo con le proposte di limitare ulteriormente il diritto di sciopero, all’inizio nel settore pubblico ma poi con l’intenzione di estendere l'attacco anche al privato, si prepara ad affrontare un periodo certamente lungo di tensioni, scontri, conflitti sociali.
Per sua sfortuna, ciò che è accaduto nel mondo negli ultimi anni prova che nessuna legge, nessun apparato repressivo, nessuna minaccia sono in grado di fermare la rabbia e la disperazione di milioni di lavoratori.

La lotta che i lavoratori devono intraprendere non è solo per la legittima difesa del diritto di sciopero, per la cancellazione delle leggi che nel settore pubblico lo limitano fortemente. Deve essere una lotta più generale per la sconfitta delle politiche di austerità che impoveriscono milioni di proletari in Italia e in Europa.

Con la consapevolezza che, solo unendo e organizzando lavoratori e attivisti sindacali che si oppongono alle burocrazie, sarà possibile non solo lottare ma, finalmente, anche vincere.

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