ACCORDO PRODUTTIVITA’
LA PIETRA TOMBALE SUI DIRITTI DEI LAVORATORI
di Alberto Madoglio

La pietra tombale sui diritti dei
lavoratori. Questo è il vero titolo che bisognerebbe dare all’accordo sulla
produttività firmato da Governo, Confindustria, Cisl, Uil e Ugl nei giorni
scorsi.
Come sempre, quando si siglano
accordi di questo tipo, la grancassa dell’informazione borghese (ma si farebbe
meglio a dire disinformazione) offre il meglio di sé.
Un accordo storico? Sì, ma contro i lavoratori
In questo caso è stato detto e scritto che l’accordo
rappresenta una svolta epocale, ma nell’interesse della collettività, di
padroni e lavoratori. Da oggi, dicono, quest’accordo crea le condizioni perché
le aziende vedano aumentare i propri profitti, riuscendo, una volta per tutte,
ad uscire dalla profonda crisi nella quale sono cadute dal 2007. Per i
lavoratori si metterà finalmente uno stop alla caduta del potere di acquisto
dei salari e stipendi, consentendo loro di superare quello stato di miseria e
precarietà che dura ormai da almeno due decenni. Stiamo assistendo ad una
palese e smaccata falsificazione della realtà. Una premessa deve essere fatta.
Sicuramente le imprese italiane, dalle più piccole alle multinazionali globali,
soffrono di un deficit di competitività rispetto ai loro concorrenti
internazionali e questo rende complicato, per lavoratori e sindacati, riuscire
a strappare aumenti di salario. E’ assolutamente falso, tuttavia, affermare che
ciò sia dovuto ad una presunta rigidità del mercato del lavoro in Italia,
oppure al fatto che gli operai e gli impiegati del Belpaese lavorino meno di
quelli degli altri Paesi. E’ dalla metà degli anni ‘90 che le tutele e le
garanzie (quelle che i padroni e i loro mezzi di informazione chiamano
“rigidità”) sono regolarmente ridotte e smantellate, rendendo nei fatti una
chimera per un neo assunto, ma anche per molti lavoratori di vecchia data,
poter avere un posto di lavoro a tempo indeterminato: le riforme del Lavoro
Biagi e Treu (quest’ultima votata ai tempi del primo governo Prodi da
Rifondazione Comunista), le delocalizzazioni, le cessioni di parti di azienda,
gli appalti di lavori a cooperative o a imprese che utilizzano meno di quindici
dipendenti (con l’impossibilità di essere tutelati dall’articolo 18, ora
definitivamente smantellato dalla riforma Fornero, che nei fatti non ha avuto
nessuna seria opposizione, né dalla Cgil né dalle forze della cosiddetta
sinistra radicale, Sel e Rifondazione Comunista) hanno offerto, nei fatti,
carta bianca ai padroni nei rapporti con la loro forza lavoro.
Così come è falso sostenere che
in Italia i lavoratori abbiano orari di lavoro minori che in altri Paesi. Un
recente studio dell’Ocse ha, per l’ennesima volta, dimostrato che l’orario
medio di lavoro in Italia è tra i più elevati, fino a superare il 10-15% se ci
si riferisce ad economie con le quali quell’italiana ambisce a competere, come
la tedesca o la francese.
La realtà è che il debole
imperialismo italiano (debole rispetto ai concorrenti stranieri, non rispetto
ai propri lavoratori) cerca di garantirsi i profitti sfruttando allo sfinimento
gli operai e gli impiegati.
Questo è lo spirito con il quale è stato siglato l’accordo sulla produttività.
Meno salario, meno diritti, più profitti per le imprese
Entriamo nel dettaglio. Se la parte
che ha destato maggiore scalpore è stata quella che, prevedendo che gli aumenti
dovranno tenere conto del quadro economico generale (in prosa: se c’è crisi
niente aumenti, anche se si lavora e si produce di più), nei fatti taglia
ancora i salari, eliminando anche il meccanismo attraverso il quale erano
minimamente tutelati dall’aumento dell’inflazione, sono le modifiche delle
parti normative che fanno sì che ci si trovi di fronte ad un salto di qualità
senza paragoni per ciò che riguarda l’attacco al mondo del lavoro.
Attraverso gli accordi tra
imprese e sindacati si potrà derogare a varie leggi a tutela del lavoro: un
operaio potrà subire una “demansionamento”, cioè essere inquadrato a un livello
inferiore con relativa perdita di salario e il tetto massimo di ore di lavoro
giornaliero e settimanale potrà essere innalzato per rispondere alle esigenze
della produzione, senza aumenti salariali. Con la scusa di ridurre l’età dei
lavoratori, inoltre, le aziende potranno utilizzare i pre-pensionamenti per diminuire
il costo del lavoro, scaricandolo sulla collettività. Tenuto conto che l’ultima
riforma delle pensioni, oltre a innalzare l’età pensionabile, diminuisce
l’entità della pensione, e che la maggioranza delle entrate dello Stato sono
garantite dal lavoro dipendente, i lavoratori pagheranno due volte: con
l’aumento delle tasse che sarà fatto per garantire una pensione da fame a chi è
stato, nei fatti, licenziato. Quello che si perde, in termini di salario e
diritti, non si recupererà di certo con la contrattazione a livello aziendale o
territoriale. Nei fatti si creerà una situazione in cui i padroni potranno
ricattare più facilmente i lavoratori, minacciandoli di trasferire l’azienda in
zone del Paese dove i livelli salariali e normativi sono ancor meno favorevoli
per i lavoratori. Sono reintrodotte le gabbie salariali, eliminate con le dure
mobilitazioni sfociate nell’autunno caldo del 1969 e, con la possibilità di
utilizzare le telecamere, si introduce un controllo poliziesco dei lavoratori.
Tutto ciò avviene senza colpo ferire.
Perché questo è l’altro elemento
che indigna maggiormente.
Se Cisl, Uil e Ugl rappresentano
oramai delle vere e proprie agenzie al soldo del Governo e della borghesia
tricolore, è il comportamento della Cgil che lascia veramente senza parole
l’operaio medio.
Cgil: nessuna opposizione ad un attacco senza precedenti
Certo, il sindacato di Susanna
Camusso non ha, per il momento, siglato l’accordo. Ma come nel recente passato
non fa nulla per impedirne l’applicazione.
“E’ stato un grave errore”.
Queste sono state le parole del Segretario della Cgil. Un errore? Sarebbe come,
per riprendere una famosa frase di Trotsky, criticare un assassino per non
essersi tolto il cappello prima di entrare in casa della sua vittima invece che
denunciarne l’azione criminale.
Perché di crimine vero e proprio
contro i lavoratori si tratta. D’altronde, perché stupirsi? La Cgil non si è
opposta alla riforma delle pensioni del Governo Monti, che dalla sera alla
mattina ha alzato di diversi anni l’età per il diritto alla pensione, così come
non ha fatto nulla per difendere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Anzi, ha sottoscritto un accordo, quello del 28 giugno 2011, che, nei fatti, ha
fatto da apripista a quello odierno, dando oltre modo la possibilità a Governo,
Confindustria e sindacati governativi di criticare la mancata coerenza, non
sostenendo due accordi che nei fatti sono simili.
E’ probabile che la Camusso, in
vista della quasi certa vittoria del Pd alle prossime elezioni, non abbia
voluto fare un regalo a Monti, riservandosi di firmare col placet del futuro Premier, cioè Bersani. Così come non possiamo
escludere che la burocrazia sindacale della Cgil, spaventata da una riforma che
ne mette seriamente a rischio l’esistenza, possa respingere le sirene di chi la
richiama al senso di responsabilità, nei fatti al suicidio. Questa seconda
ipotesi non è né una vittoria né il male minore. E’ solo un gioco di potere
fatto a danno di milioni di proletari che hanno capito sulla loro pelle (vedi
caso Fiat) quale differenza ci sia fra appelli più o meno combattivi e la
realtà fatta di continue capitolazioni (sulle responsabilità della Fiom di
Landini abbiamo ampiamente scritto in passato sia sul sito sia sul nostro
giornale Progetto Comunista).
La partita non è ancora finita
Di altro necessitano i
lavoratori. La crisi dimostra ogni giorno che il capitalismo non ha niente da
offrire. Se la borghesia, il suo Governo e i partiti che direttamente (Pdl, Pd,
Udc) o indirettamente (Sel, Prc) lo sostengono non sono in grado di fare altro
che smantellare decenni di conquiste operaie, la risposta dei lavoratori deve
essere pari alla sfida. Una mobilitazione generale contro le politiche
governative dettate dalla Troika (Fmi, Ue e Bce) ma accettate e suggerite da
tutti i governi nazionali perché funzionali al capitale, deve essere il punto
di partenza di ogni vera opposizione sociale che ancora oggi manca in Italia. I
settori combattivi presenti nella Cgil, pensiamo alla Rete 28 aprile, devono
fare appello all’unità per la creazione di un sindacato di classe, combattivo,
che si riconosca in un programma anticapitalista e che sia indipendente dai
governi dei padroni e dai partiti, tutti, che li sostengono. In questo progetto
sono assolutamente indispensabili le varie organizzazioni del sindacalismo di
base che, tuttavia, è necessario escano dal loro settarismo autoreferenziale (a
tal proposito è stata assolutamente incomprensibile la scelta di Usb e Cub di
non partecipare allo sciopero europeo del 14 Novembre) che è causa, seppur in
modo minore, della situazione che vede oggi nel Paese una bassa conflittualità
sociale.
In occasione del voto della Legge
di Stabilità il parlamentare del Pd, Franceschini, ha detto che se l’Italia non
è attraversata da tensioni sociali pari a quelle viste in Grecia, Spagna e
Portogallo, nonostante politiche altrettanto dure, ciò è merito della Cgil. Per
lui si tratta di un punto di merito. Per milioni di lavoratori si tratta di una
colpa imperdonabile. Tuttavia anche in Italia il vento sta cambiando. Lo
sciopero europeo del 14 Novembre come l’occupazione dello stabilimento Ilva di
Taranto sono primi segnali di questa probabile svolta.
Il Pdac, i suoi militanti, e le
altre sezioni europee delle Lit, daranno il loro attivo contributo affinché il
vento della rivolta che soffia da Atene, Lisbona e Madrid arrivi, finalmente,
anche da noi.