No al tentativo della Cgil e della Fiom
di azzerare il conflitto nella società e nei luoghi di lavoro.
Lottiamo per costruire una vera alternativa
al sindacalismo concertativo!
di Alberto Madoglio

Dopo la sconfitta, subita da Cgil
e Fiom alle elezioni dello scorso febbraio, sconfitta, ricordiamo, causata dal
fallimento del loro progetto basato su di una vittoria della coalizione di
centro sinistra tra Pd e Sel, qualcuno poteva pensare che queste due importanti
organizzazioni sindacali facessero tesoro del risultato elettorale e
imprimessero una svolta di 180 gradi rispetto alle politiche fino allora
seguite. Le cose, ovviamente non sono andate così. Le burocrazie sindacali
guidate da Camusso e Landini hanno, al contrario, proseguito, anzi accelerato –
rendendolo di fatto irreversibile – il percorso di subordinazione alle esigenze
di governabilità dei partiti di entrambi gli schieramenti borghesi, e di tutela
dei profitti e della pace sociale delle aziende italiane sempre più colpite
dalla crisi economica, oggi ancora in corso dopo sei anni dalla sua esplosione.
Come spesso accade la realtà ha
superato ogni più fosca previsione. Fiom e Cgil hanno sferrato un micidiale
doppio colpo alle speranze di milioni di lavoratori.
La burocrazia della Fiom getta la maschera
Ha iniziato per primo il
sindacato dei metalmeccanici quando, nell’ultima riunione del Comitato Centrale
ha avanzato alle corrispondenti organizzazioni di Cisl e Uil, e indirettamente
a Federmeccanica, l’organizzazione padronale, una proposta in otto punti che,
di fatto, cancella gli ultimi tre anni di lotte e mobilitazioni che, seppur in
maniera confusa, timida e contraddittoria, il sindacato guidato da Landini
aveva intrapreso.
Quando nel 2010 a Pomigliano la
Fiat decideva di cancellare per i dipendenti di quella fabbrica il contratto
nazionale, la Fiom aveva davanti a sé due strade: lanciare una mobilitazione
generale di tutti gli operai Fiat, per poi estenderla a tutte le fabbriche del
Paese, per bloccare quella che fin da subito appariva come un’aggressione che,
alla fine, si sarebbe estesa a tutti i lavoratori (come poi fu), oppure
limitarsi al caso specifico della fabbrica campana, accettando nei fatti la
strategia scelta da Marchionne. Conseguente a questa seconda decisione fu la
scelta di abbandonare un po’ alla volta la mobilitazione operaia, delegando
alla magistratura borghese la soluzione del problema. Quali risultati questa
serie infinita di ricorsi, controricorsi, appelli e sentenze della Corte di
Cassazione, abbia prodotto, è sotto gli occhi di tutti: nessuno. La Fiat
continua a ricattare i propri lavoratori, minacciando e licenziando chi tenta
di resistere.
Gli otto punti, come detto,
cancellano gli ultimi tre anni di conflitto. La Fiom propone, per tornare al
tavolo delle trattative insieme a Fim-Cisl e Uilm, di ritirare i ricorsi alla
magistratura ancora pendenti, di non promuoverne di nuovi e, soprattutto, di
accettare l’accordo del 28 giugno 2011 col quale si sancisce che, a livello
aziendale o territoriale, le norme del Contratto Nazionale possano essere
modificate, in peggio, sia dal punto di vista economico che normativo. Come
chiunque può capire, tutto ciò rappresenta non una furbizia tattica per
riguadagnare un ruolo nelle trattative, ma una resa incondizionata senza
nemmeno ottenere l’onere delle armi. Ma non è finita qui.
Camusso e Landini, insieme ai padroni, cancellano la democrazia dai luoghi di lavoro
Il secondo colpo è stato sferrato
dalle burocrazie sindacali al movimento operaio il 23 aprile, ed è stato più
duro del primo.
Il Consiglio Nazionale della Cgil
ha votato a larghissima maggioranza (con i soli voti contrari dei sostenitori
della Rete 28 Aprile) a favore dell’accordo sulla rappresentanza sindacale nel
settore privato, sottoscritto da Cgil, Cisl Uil e Confindustria.
Spirito dell’accordo sarebbe di
regolamentare, una volta per tutte, la rappresentatività sindacale in azienda.
A livello nazionale si stabilisce che possano sedere al tavolo delle trattative
le organizzazioni che rappresentano almeno il 5% dei lavoratori, mentre a
livello aziendale questa possibilità è riservata ai componenti delle Rsu e ai
sindacati ai quali appartengono.
Già questa parte dell’accordo
suscita molte perplessità. Almeno per due ragioni. La prima ragione è nella
natura profondamente antidemocratica di una regola che riserva un terzo dei
componenti delle Rsu ai sindacati confederali, a prescindere dai voti da loro
presi nelle elezioni delle rappresentanze aziendali. La seconda è che la norma,
all’apparenza garantista, che concede il diritto a trattare a chi ha almeno il
5% degli iscritti, non tiene conto che in molte aziende l’iscrizione a
sindacati considerati non sufficientemente compiacenti con la dirigenza, può
costare caro ai lavoratori, i quali, infatti, preferiscono iscriversi al sindacato
senza comunicarlo al loro padrone, e che nei fatti rischia di escludere dal
tavolo negoziale sindacati solo “formalmente” non sufficientemente
rappresentativi.
Ma il punto veramente scandaloso
è quello che sancisce la cosiddetta “esigibilità” degli accordi.
Fuori da ogni tecnicismo, con
questo termine s’intende che potranno d’ora in avanti partecipare alle elezioni
per le Rsu solo le organizzazioni che accetteranno di non scioperare o di
ricorrere alla magistratura per opporsi ad accordi aziendali da loro valutati
negativamente, se questi sono stati appoggiati dalla maggioranza dei membri
delle Rsu o dei lavoratori nel caso, non obbligatorio, che si siano espressi
con un referendum interno.
Non inganni il richiamo alla
volontà della maggioranza. Il fatto che, con l’accordo del 28/6/11, si possa
derogare in peggio a quanto stabilito dal Contratto Nazionale, rende i
lavoratori ricattabili nei confronti del padrone: come abbiamo già visto altre
volte in passato (come nel caso di Pomigliano), con la minaccia di venir
licenziati, gli operai possono accettare di rinunciare a diritti indisponibili,
secondo la terminologia giuridica borghese, cioè ai quali non si potrebbe
rinunciare, né singolarmente né collettivamente, perché riguardano la dignità
stessa del lavoratore.
E il fatto che chi non è
d’accordo su un tema specifico non possa in nessun modo opporsi, pena l’essere
estromesso dall’azienda, è qualcosa che non ha precedenti nel recente passato
dell’Italia e, crediamo, in nessuna delle tanto decantate “democrazie
occidentali”.
Per fare un paragone è come se ad
un partito fosse negato il diritto di partecipare alle elezioni, di poter
manifestare in piazza, di usufruire di spazi pubblici, per essersi opposto a
una legge varata dal Parlamento. Qui non si tratta solo dell’ennesimo attacco
ai diritti che i lavoratori hanno conquistato con decenni di lotte. Con
quest’accordo gli stessi principi della democrazia borghese sono
annullati, prova ulteriore di come le
classi dominanti sono disposte a fare concessioni democratiche solo fino a
quando le ritengono utili per il proprio tornaconto.
Incontro internazionale di Parigi: il sindacalismo combattivo indica la strada
Con queste premesse, fa
francamente sorridere che il gruppo dirigente della Fiom abbia avuto la sfrontatezza
di indire, per il prossimo 18 maggio, una manifestazione nazionale per la
difesa del salario: si tratta di un imbroglio bello e buono. Da un lato si
firmano o si sostengono accordi che smantellano ogni garanzia economica e
normativa per i lavoratori, dall’altro si tenta di imbastire una penosa messa
in scena per cercare di far proseguire quella sorta di illusione collettiva che
vuole il sindacato diretto da Landini come ultimo baluardo in difesa delle
ragioni dei più deboli.
E’ ora di dire basta a tutto ciò.
Ma non bisogna limitarsi alla critica. E’ indispensabile cominciare a
mobilitarsi per costruire una vera alternativa di classe alle decisioni imposte
dalle burocrazie sindacali.
Bene hanno fatto Cremaschi e la Rete 28 aprile, la Cub e
Usb a denunciare i fatti di cui noi abbiamo parlato in quest’articolo. Ma ciò
non basta. Da un lato la Rete 28 Aprile deve rompere in maniera definitiva con
l’opposizione interna agli apparati e lanciare la propria battaglia tra tutti i
militanti e gli iscritti della Cgil, con una chiara piattaforma alternativa a
quella della nuova maggioranza Camusso-Landini. Dall’altro, Usb e Cub
dovrebbero farla finita con la logica settaria di mera autoconservazione
organizzativa. Da queste tre forze dovrebbe iniziare un percorso di
coordinamento, di unificazione di tutte quelle tendenze e organizzazioni
sindacali che si oppongono alle politiche di austerità ai danni dei lavoratori,
che non accettano che il prezzo della crisi debba essere ancora una volta
pagato dai lavoratori.
E’ un’esigenza che non riguarda
solo l’Italia, ma che è presente e viva in settori combattivi e di avanguardia
del movimento sindacale e operaio in ogni angolo del pianeta. E’ con questa
consapevolezza che lo scorso marzo, a Parigi, si sono riuniti centinaia di
militanti in rappresentanza di varie organizzazioni sindacali e di lotta. Da
quell’incontro è emersa l’esigenza di fornire una risposta di classe, a livello
internazionale, alternativa a quelle che i vari Governi, la Troika e le
burocrazie sindacali, vogliono imporre.
L’adesione formale alla Rete
Sindacale Internazionale di Parigi: questo è il primo passo indispensabile che
il sindacalismo non concertativo in Italia dovrebbe compiere. Sarebbe un
segnale forte che ridarebbe fiducia e speranza a milioni di lavoratori
demoralizzati, e sarebbe anche la prova che la critica non si limita alle
parole ma comincia a farsi programma concreto. E’ questa la sfida che il PdAC
lancia a tutte le forze sindacali e di movimento che non si rassegnano a essere
vittime, o spettatrici passive e inermi, degli attacchi del capitale.